Il diritto di opporsi – La recensione del film con Michael B. Jordan e Jamie Foxx

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Di Massimo Vozza

Il tema del razzismo è ancora un forte problema negli Stati Uniti (ma non solo) e di conseguenza, giustamente, il cinema americano vi si accosta a cadenza annuale con titoli più o meno riusciti, spesso ispirandosi a fatti di cronaca realmente accaduti e/o tratti da romanzi soprattutto di successo; nello specifico, Just Mercy di Destin Daniel Cretton (Il castello di vetro, Short Term 12) racconta la vera storia dell’avvocato Bryan Stevenson da lui stesso trasposta nel libro Just Mercy: A Story of Justice and Redemption, focalizzandosi principalmente sul rapporto tra Stevenson e il condannato a morte Walter McMillian.
Nel 1988, il neo laureato in legge ad Harvard, Bryan, sceglie coraggiosamente di recarsi in Alabama  per combattere contro le ingiustizie, con lo scopo di aiutare le persone la cui vita è letteralmente in pericolo, grazie anche al sostegno dell’attivista Eva Ansley. La dura lotta per dimostrare che McMillian venne ingiustamente condannato alla sedia elettrica per omicidio diviene man mano un caso emblematico a sfondo razziale che finisce con lo scuotere un sistema giudiziario senza dubbio ingiusto.
Alcuni elementi di questo titolo non potranno non farvene tornare alle mente altri simili, tra i quali Il miglio verde e in particolare Il buio oltre la siepe che viene perfino esplicitamente citato per evidenziare quanto il problema di intolleranza e pregiudizio contro gli afroamericani sia radicato: nonostante l’importanza riconosciuta a quel romanzo e al conseguente film, il fulcro del sistema giudiziario malato qui coincide geograficamente con i luoghi dove Harper Lee diede vita alla sua opera letteraria. Eppure qualcosa non va nell’intera costruzione narrativa di questo nuovo prodotto: non solo il punto di vista dell’avvocato risulta troppo poco interessante e d’effetto (seppur alternato con quello dell’innocente detenuto che è sicuramente di maggiore impatto e crea più empatia) ma il centro tematico si sposta continuamente tra razzismo, sistema giudiziario iniquo e opposizione alla pena di morte, mai sviscerandone davvero nessuno ma riportando semplicemente ed egregiamente i fatti che con difficoltà riescono a dialogare con gli spettatori immersi nel tempo presente; ognuno di questi merita di essere ancora sviscerato dalla settima arte ma in maniera innovativa e profonda e non più classica e scontata.
Difatti anche la costruzione prettamente estetica e cinematografia non emerge quasi mai o comunque non porta davvero nulla di interessante e diverso: degna di nota è giusto la sequenza della morte di uno dei carcerati ma bisogna ammettere la sua eccessiva durata e l’esplicita costruzione a tavolino con lo scopo di commuovere a tutti i costi le fanno perdere almeno qualche punto.
Il cast funziona se ci si concentra sulle performance dei detenuti, capeggiati da un buon Jamie Foxx, ma fallisce miseramente con la Ansley di Brie Larson (personaggio costruito male e mal sfruttato nella narrazione) e soprattutto con il Bryan di Michael B. Jordan che mostra una perenne espressione da cane bastonato e risulta poco incisivo nel declamare la bella (sulla carta) arringa durante al processo.
Per chiudere evidenziamo un problema tutto italiano: la scelta di distribuire qui il film con il titolo Il diritto di opporsi per richiamarne altri come Il diritto di contare (anche quello totalmente diverso da quello originale).
VOTO: 5/10


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