Titane | La recensione del film vincitore della Palma d’Oro a Cannes

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Di Massimo Vozza

Esce nelle sale italiane il film che ha vinto la Palma d’oro al 74° Festival di Cannes, l’autoriale horror fantascientifico Titane, diretto da Julia Ducournau e interpretato da Agathe Rousselle e Vincent Lindon. L’opera narra di Alexia, ragazza costretta a vivere con una placca di titanio in testa in seguito a un incidente con la macchina avvenuto quando era una bambina; di lì in poi la sua identità ed esistenza saranno continuamente messe in discussione, soggette al mutamento, in una continua discesa e risalita dagli inferi.

Perché vedere Titane 

La ragione principale per la quale andrebbe visto (e in sala) è tutt’altro che un merito del prodotto: l’industria cinematografica è abbastanza in sofferenza e merita una ripresa economica (quindi affluenza di pubblico), soprattutto quello europeo, con vocazione artistica e firmato da donne che, ricordiamolo, già l’anno scorso hanno in trionfato durante la stagione premi senza però potersi scontrare veramente al botteghino con il cinema tutto. Poi c’è una seconda ragione, squisitamente culturale: questo è un film che non può lasciare indifferenti, anche per il suo essere un approccio non canonico al cinema di genere. Oserei perfino dire che è costruito con l’intento di dividere e di alimentare il dibattito intorno ad esso, quindi se amate il confronto con altri cinefili e altre cinefile, se volete essere stimolati e stimolate, nel bene e soprattutto nel male, da un prodotto audiovisivo dovete recuperarlo.

Perché non vedere Titane

E qui però arriviamo al punto cruciale e dolente: per quanto sia bello discutere di cinema, il recuperare Titane è veramente estenuante e fastidioso per chi come noi detesta i prodotti che puntano esclusivamente su immagini scioccanti gratuite, i cosiddetti pugni nello stomaco fini a loro stessi, e che danno un’importanza maggiore alla struttura sottostante tematica tralasciando eccessivamente la sovrastruttura. Difatti, il film della Ducournau ha un’elevata valenza metaforica che mal si presta all’interpretazione: la commistione di generi, l’andamento altalenante del ritmo e l’evoluzione narrativa sono confusionari al limite del concesso dalla mente umana che viene messa veramente a dura prova. Titane ci sussurra di un futuro avanguardista, senza etichette o confini, e del sacrificio che bisogna fare per accedervi, ma a livello estetico non c’è davvero nulla di così suggestivo che sembri catapultarci nel futuro, nel mai visto sul grande schermo. Andare oltre i limiti della decenza sul piano visivo, esattamente come l’agire immotivato della protagonista, non vuol dire per forza essere innovativi e veramente contemporanei ma voler rimanere impressi a ogni costo e basta, provocando perfino qualche risata in volontaria qua e là. 

La speranza che il pubblico metta in seguito in moto il cervello per cercare di trovare la quadra che, va detto, non è neanche così difficile, è remota: esausto, al massimo finirà per cercarsela su qualche blog di cinema, sperando di non aver buttato via del tutto il proprio tempo una volta letto l’articolo. E nonostante questo suo porsi nella prima parte più come istallazione audiovisiva che come film narrativo, puntando sul rapporto tra essere umano, macchina e ibrido, quasi a voler imitare quello di Under the Skin (quello sì un capolavoro) tra essere umano, alieno e ciò che diventa (nel profondo) il personaggio della Johansson, nella seconda parte tenta improvvisamente di diventare più accessibile, costruendo un fantomatico rapporto tra figure genitoriali e figli ( nonché figlie), accantonando a singhiozzi il tema iniziale. La visione di Titane insomma è una sfida: noi l’abbiamo vinta ma senza soddisfazione, anzi diremmo con insoddisfazione rabbiosa verso il prodotto, l’autrice, Cannes e l’industria cinematografica. Nel caso fosse negli intenti far uscire dalla sala qualcuno anche così pieno di sentimenti negativi c’è da dire che la missione sarebbe decisamente compiuta.

VOTO: ★½


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