Denti da squalo, coming of age all’italiana scialbo e derivativo [Recensione]

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Di Simone Fabriziani

La scuola è finita e Walter, 13 anni, ha appena perso il padre. Nel suo vagare apparentemente senza meta lungo il litorale romano, un luogo affascinante e misterioso cattura la sua attenzione: una villa abbandonata con una gigantesca, torbida, piscina. Ma la villa non è incustodita e per Walter inizierà un viaggio indimenticabile. Debutta nelle sale italiane giovedì 8 giugno Denti da squalo, opera prima dietro la macchina da presa per Davide Gentile, su sceneggiatura a quattro mani firmata da Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, che per questo script avevano vinto il prestigioso Premio Solinas.

Un progetto cinematografico, quello nato dall’intuizione dei due giovani sceneggiatori, che è stato nel cassetto per moltissimo tempo, fino a quando il regista e Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks Out) decide di produrre Denti da squalo e di rendere la sceneggiatura vincitrice del Solinas realtà cinematografica.  Una produzione che ingaggia un volenteroso regista esordiente, Davide Gentile, alle prese dietro la macchina da presa di un coming of age estivo che trae la sua forza primigenia ed ancestrale più dall’uso suggestivo delle location che nell’incisività di personaggi, dialoghi ed idee narrative.

Denti da squalo è un racconto di formazione adolescenziale che adagia il suo perno di maggior interesse nella scelta dei luoghi in cui l’estate pericolosa, sorprendente e spericolata di Walter (Tiziano Menichelli) si dipana; il nostro piccolo protagonista fa la conoscenza di uno squalo all’interno di una piscina quasi fuori dal tempo, sospesa e fatata nel suo essere sintesi di suggestiva antichità (la vicinanza ad una misteriosa torra medievale carica il racconto del film di Gentile di richiami di genere avventuroso, senza mai però trascendere nel sovrannaturale) e contemporaneità locale. Ambientato nella periferia costiera di Roma tra Tor San Lorenzo e le propaggini del Lido di Ostia, Denti da squalo fa però un capitombolo quando si tratta di costruire personaggi, dinamiche interrelazionali e contenuti nascosti nella filigrana della sceneggiatura.

Difatti, che uno script di certo volenteroso e suggestivo come quello a quattro mani di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini reiteri allo sfinimento certi prodromi e cliché di un modo tutto contemporaneo di raccontare la periferia romana al cinema e al tv, fa poco piacere; soprattutto quando il lungometraggio prodotto (e co-musicato!) da Gabriele Mainetti viene venduto come un degno erede di titoli spartiacque per il nostro cinema di genere come Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, senza mantere né questa promessa né proponendo allo spettatore nostrano un racconto per il grande schermo ricco di spunti e sguardi originali.
In Denti da squalo, effettivamente, non c’è nulla di veramente inedito: c’è la periferia romana ritratta (ancora!) come cornice di degrado e difficoltà famigliari, c’è la piccola criminalità di Ostia (di nuovo!), che dopo prodotti televisivi come Suburra sembra più una scelta manierista e d’antan che sfondo genuino della narrazione adolescenziale di cui il film di Gentile si fa carico; c’è infine la storia di un adolescente che, dopo la tragica perdita della figura paterna, segue le orme “piratesche” del genitore deceduto facendo amicizia con uno squalo prigioniero di una piscina senza tempo e del suo custode (Stefano Rosci), coetaneo irruento ed irrequieto che cambierà la vita di Walter per sempre. Alla fine, a  convincere maggiormente in questo brodo di anticaglie narrative che di originale non hanno veramente nulla, sono i piccoli ma incisivi personaggi di Edoardo Pesce e di Virginia Raffaele, quest’ultima al suo primo ruolo sostanzialmente drammatico.
Denti da squalo debutta nelle sale italiane a partire da giovedì 8 giugno con Lucky Red.

VOTO: ★★