Di Pietro Lafiandra
Edgar Howard Wright non rappresenta per l’Italia ciò che rappresenta per l’universo cinematografico britannico. Per chiarezza: anche in terra nostrana il regista di Poole è ammirato, osannato, idolatrato, ma se in Inghilterra è conosciuto e stimato universalmente in quanto rappresentante di un’ironia e di un folklore tipicamente british, in Italia la sua fama si estende quasi esclusivamente alla ristretta cerchia composta da cinefili e afficionados di commedie d’autore.
Wright è conosciuto come un abile confezionatore di prodotti e come regista talentoso, tant’è vero che alcuni estratti dei suoi primi lavori vengono anche mostrati nelle scuole di cinema, ma i “film alla Edgar Wright” – come li chiama lui – non hanno ancora raggiunto un pubblico di massa. Chissà che l’uscita di Baby Driver (prevista nelle sale italiane per il 7 settembre) non porti finalmente al centro del flusso mainstream italiano uno degli autori più interessanti del panorama mondiale.
Dopo lo scarso successo di pubblico ottenuto da Scott Pilgrim vs The World – nonostante il tripudio di recensioni positive fornitigli dalla critica anglosassone – e la buona accoglienza riservata a The World’s End, film che portava a conclusione la fortunatissima “Trilogia del Cornetto” (Shawn of the Dead, Hot Fuzz), Wright torna a scrivere un film in completa autonomia come era avvenuto solo per il suo film di debutto A Fistful of Fingers e sembra portare a conclusione un processo di maturazione autoriale che non ha mai prescisso da alcuni elementi cardine, tutti convergenti in quest’ultima opera: l’infatuazione amorosa, i personaggi eccentrici, le automobili, il citazionismo esasperato e, soprattutto, la musica.
La costruzione di un protagonista afflitto da tinittus (una disfunzione dell’apparato uditivo che causa la percezione di un continuo ronzio) è infatti il perfetto escamotage che Wright utilizza per dare sfogo al suo sfrenato feticismo musicale, componendo un patch ipertrofico (circa 30 pezzi) di brani musicali che si rincorrono senza tregua, molti dei quali passano attraverso gli auricolari da cui Baby Driver non si allontana mai per trovare sollievo dall’acufene. Beck. Blur. Danger Mouse. Beach Boys. Uno dopo l’altro. Non è un caso che l’idea che ha dato vita al film risalga a qualche anno fa, quando il regista stava collaborando con la band di Manchester Mint Royale e decise (per poi pentirsene) di utilizzare il soggetto che oggi dà vita al film per il videoclip di “Blue Song”, il quale risulta a tutti gli effetti essere una miniaturizzazione di Baby Driver in 3:30 min. Inoltre, sebbene Wright stesso, in un’intervista pubblicata su Sight & Sound, ci tenga a precisare come il film abbia poco a che vedere con Drive, e che tragga ispirazione piuttosto da The Driver di Walter Hill, è impossibile dimenticare come anche la colonna sonora del film di Refn fosse costituita in gran parte da brani pop non originali e come la dimensione musicale fosse fondamentale tanto quanto quella visiva per i fini ritmici ed estetici.
Le analogie tra il film del regista danese e Baby Driver sono effettivamente poche, ma l’utilizzo che entrambi fanno della colonna sonora è indicativo di un modo di operare tipico di un certo cinema contemporaneo di cui Wright è fiero esponente. Sin da quando in Shawn of The Dead Simon Pegg cercava di (ri)uccidere la vicina-zombie lanciando i vinili dei Dire Straits, Sade e della colonna sonora di Batman contro il suo cranio si evinceva la natura di soundman post-moderno del regista britannico, un soundman differente da Lynch o Carpenter, che basa sul remix e il collage il suo approccio al suono, esattamente come Shawn estrae differenti vinili da una scatola di cartone o fa zapping su una scatola catodica attraverso cui differenti programmi costruiscono un’unica frase di senso compiuto.
Più che per ogni altro autore contemporaneo, la musica per Wright svolge una funzione ritmica. Accompagna le lunghe scene di lotta, subentra di soppiatto nel mezzo dei dialoghi; è multiforme, malleabile: è on the air, quando proviene da radio, televisioni, giradischi; è diegetica, nei canti popolari, nei motivi fischiettati o vagamente accennati dai protagonisti; è extra diegetica ogni qual volta scandisce un inseguimento in auto, una zuffa, un momento patetico; passa dal rock, al pop, al punk; si compenetra con il sapiente lavoro di sound design, trovando sublimazione definitiva in Scott Pilgrim vs The World, l’opera in cui domina la scena maggiormente: è protagonista assoluta come motivo scatenante delle azioni del protagonista (la scalata al successo con la sua band), come elemento parodico (la sigla della Universal rivisitata in 8bit) e addirittura produttivo/distributivo grazie alla collaborazione con Nigel Godrich, storico produttore dei Radiohead, inventore del formato “From the Basment” e membro degli Atoms for Peace.
La musica nei film di Wright pervade ogni livello dell’opera: è ovunque e non solo a livello esplicito. Il regista sembra pensare con l’udito, utilizzare le orecchie in vece degli occhi.
Sono in molti a pensare che l’arte del montaggio sia un’arte più legata all’apparato uditivo che alla vista. Questo è il frutto infatti di pulsazioni, variazioni ritmiche e oscillazioni. E’una tessitura di accordi e melodie. Cellule che si ripetono, dissonanze e consonanze. Le terminologie del montaggio e quella musicale arrivano, a volte, persino a sovrapporsi. Non sorprende quindi che i due maggiori fattori stilistici dei film di Wright siano proprio il montaggio e la colonna audio, ancor prima della sceneggiatura e della regia.
Così il suono (dialoghi compresi) accompagna il montaggio nella costruzione di una continuità filmica frenetica, dalla quale la stasi sembra essere completamente avulsa. Difficilmente ci si potrà imbattere in prolungati silenzi, e quando lo si farà, questi saranno solo una breve frazione predisposta ad accentuare la prossima comparsa di scontri dialettici dalla cadenza studiata, di voci e grida che si sovrappongono, di suoni in lontananza che si fanno sempre più forti. Il tutto coadiuvato da una scansione a cui contribuiscono tutti gli apparati tecnici: la macchina da presa sempre in moto, sia quando rotea che quando compie micro movimenti, una recitazione basata più sulla fluidità del corpo che dell’espressività dei volti, un montaggio che fa sfoggio esasperato di effetti tendina, brusche interruzioni, rallenti, accelerazioni, salti all’indietro, split screen e un sound design stilizzato, goffo, strutturato su rumori da videogioco, da film d’animazione, da fumetto. Rumori che compaiono e si interrompono bruscamente, mickey-mousing, suoni che sgommano e strisciano come le auto onnipresenti nella quasi totalità dei film di Wirght fino a quest’ultimo
Baby Driver. E chissà che per l’Italia non possa essere un inizio.
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