Di Gabriele La Spina
Nicole Kidman e Stanley Kubrick sul set di “Eyes Wide Shut” |
10. Moulin Rouge! (2001)
Divenuto celebre nel 1997 con la pellicola Apri gli occhi, il regista Alejandro Amenábar, si trasforma sorprendentemente in Alfred Hitchcock, realizzando una rivisitazione rarefatta e a tratti fiabesca del romanzo “Giro di vite” di Henry James. Ma se Amenábar si tramuta nel regista thriller per eccellenza, Nicole Kidman diviene la sua musa Grace Kelly, ancora prima del becero biopic Grace di Monaco, l’attrice con un caschetto biondo e la figura statuaria che la contraddistinguerà è non a caso la fanatica religiosa Grace, che vive in una casa avvolta dalla nebbia con i due figli fotosensibili. The Others non avrebbe potuto avere un plot più inquietante, ma in realtà il punto di forza della pellicola risiede proprio nell’ingenuità dei suoi protagonisti. Come accadrà spesso in futuro, è la Kidman a sostenere il peso della pellicola con una sceneggiatura affatto semplice. Perché lo sconvolgente twist finale non sarebbe nulla senza la fomentazione dei personaggi, che trascinano chi guarda in un’aura di paranoia. La Kidman come un’atleta della recitazione, alterna con destrezza toni di pura isteria a intensa dolcezza, nei suoi occhi è possibile leggere il desiderio e la paura di dell’insospettabile Grace, anti eroe inconsapevole del suo destino, e solo verso la fine cosciente delle certezze perdute fino a prima riposte nella sola fede religiosa.
Nicole Kidman in “Dogville” |
L’adattamento di una pièce teatrale vincitrice del Premio Pulitzer, diviene il giusto mezzo per riportare Nicole Kidman ad essere notata dai membri dell’Academy, quasi un’élite, che ha giudicato il suo talento ormai appannato dopo la vittoria dell’Oscar. In realtà fino a questo momento la Kidman ha esplorato altre frontiere dedicandosi a registi europei e pellicole indie. Rabbit Hole è il film che inaugura il suo ruolo di produttrice, che darà vita nel 2015 a La famiglia Fang, una pellicola meno convincente della suddetta. L’attrice si presta anche per il casting del film e trova un regia, dopo il rifiuto di Sam Raimi, nel giovane quanto controverso John Cameron Mitchell. Veste i panni di Becca, una madre in lutto per la perdita del figlio, è probabilmente il ruolo più intenso e reale da lei interpretato: priva di fronzoli, trucco e lustrini, la Kidman scava nel profondo disastro emotivo del suo personaggio e vive anche lei il peso della sua disgrazia. La sua interpretazione è anche frutto di un’approfondita ricerca, l’attrice ha infatti incontrato numerose madri e ascoltato le loro toccanti storie di perdite. Nonostante le venne impedito di assistere a una reale seduta di gruppo, riesce a rendere con efficacia il triste sarcasmo di Becca in una delle celebri prime scene del film.
Rinchiusa in un piccolo studio della Svezia, Dogville rappresenta il suo tour de force. Portata al limite dello stress e della stanchezza fisica da Lars Von Trier, la Kidman implora pietà sul set quando il guinzaglio al suo collo non le permette di respirare, assottigliando il confine tra realtà e recitazione di questa incredibile pellicola. Non è un caso se Quentin Tarantino, arduo sostenitore del film, affermò che avrebbe dovuto vincere il Premio Pulitzer per la il suo spessore non dissimile da una pièce teatrale, nulla è lasciato al caso nella sceneggiatura di Dogville, nemmeno il personaggio della protagonista, impersonato da Nicole, che si ritrova nuovamente il nome di Grace cucito addosso, stavolta però un’ingenua alla ricerca del sogno americano. Nicole perde la sua anima e il suo corpo sotto l’angusta regia di Von Trier, che la sottopone ai più indicibili soprusi al limite della misoginia. Un’atmosfera quasi surreale e angosciante dove qualunque altra attrice avrebbe incontrato enormi difficoltà, eppure la Kidman sembra sprezzante del rischio. È forse la pellicola di Von Trier a battezzarla come attrice “coraggiosa” e dai ruoli controversi, ma Dogville testimonia in realtà la sua voglia di sperimentare e discostarsi dagli stereotipi del cinema americano, che per l’appunto il regista critica aspramente.
Potrebbe sembrare quasi erroneo non vedere capeggiare il ruolo della vittoria dell’Oscar al primo posto di una lista sulle più grandi performance di Nicole Kidman, ma non lo è. Perché se è vero che la Kidman è una formidabile “ritrattista” di personaggi storici e anche vero che prima di tutto la sua più grande abilità sta nel costruire personaggi originali. Quello di Virginia Woolf è senza dubbio il personaggio più importante mai affidatole, evitando di soffermarsi sulla trasformazione fisica, l’invecchiamento e l’imbruttimento dell’attrice, il suo è stato un lavoro di puro mimetismo. La Kidman diviene quasi ossessionata dal suo personaggio tanto da vestire i suoi panni anche fuori dal set, ma il suo lavoro non è di imitazione bensì di interpretazione. Prima di indossare il costume, Nicole cattura a pieno l’essenza della Woolf, il conflitto e il tormento scaturito dalla sua malattia. Nei suoi occhi è perfettamente visibile una scintilla, il barlume del genio della scrittrice, intenso nell’ispirazione e ben più flebile nella riflessione della sua solitudine, e di quella macabra attrazione per la morte. Stephen Daldry ha la fortuna di dirigere tre diverse generazioni di fenomenali attrici, con Meryl Streep e Julianne Moore, e realizza un perfetto valzer drammatico, valorizzato dalla memorabile colonna sonora di Philip Glass.
Nicole Kidman in “Strangerland” |
Chiunque sarebbe pronto a biasimarla per la sua scelta di prendere parte a un camp movie quale è il thriller erotico di Lee Daniels, ma nessuno si sarebbe aspettato un risultato simile da lei. Anche perché costretta dal ristrettissimo budget, Nicole realizza da zero il suo personaggio, decidendo trucco, capelli e abiti, prontamente proposti a Daniels attraverso degli scatti inviati con il suo cellulare. Gretta e a limite del volgare, Charlotte è una barbie trash della Louisiana sommersa dall’abbronzante spray, una ninfomane che intrattiene relazioni epistolari con diversi detenuti, e rimane invischiata in una faccenda più grandi di lei attraverso uno di questi. Probabilmente la performance più corporale della Kidman, che non affida la recitazione al suo sguardo qui coperto da pesanti ciglia finte, ma ai suoi gesti, alle sue movenze e alla modulazione della sua voce. Oltre la tensione erotica, in realtà più edulcorata di quanto si possa pensare, della pellicola, quello che colpisce nei personaggi di The Paperboy è la cieca follia per il conseguimento dei propri scopi, una continua lotta per la sopravvivenza in una realtà cruda. Ne è l’emblema la scena che più ha suscitato scandalo, oltre la tralasciabile golden shower, ovvero quella del sesso telepatico durante l’incontro in carcere tra Charlotte e Hillary, solo la Kidman avrebbe potuto rendere credibile senza scadere nel ridicolo, l’oblio sessuale di cui la fragile Charlotte è tristemente schiava.
Se la sua prima esperienza come attrice risale alla serie televisiva del 1983, La banda della BMX che l’ha portata alla conquista della televisione australiana anche in seguito con la serie Bangkok Hilton, del 1989, il piccolo schermo deve aver avuto sempre un posto d’onore nel cuore della Kidman. Tralasciando la parentesi con il film televisivo Hemingway & Gellhorn, sempre per HBO, la sua vera grande possibilità è stata quella di Big Little Lies. Una miniserie in 7 episodi dove la Kidman ha potuto sviluppare con minuziosità il personaggio di Celeste, una donna che subisce i continui abusi fisici e psicologici da parte del marito. Jean-Marc Vallée incornicia con eleganza, lasciando libere della sfumature da serie musicale. Nicole porta le cicatrici del suo personaggio anche fuori dal set, e di episodio in episodio sembra che la sua intera carriera sia stata una preparazione a questa incredibile prova attoriale. New York Magazine la definisce una ninja delle emozioni, per sottolineare la maestria con la quale l’attrice riesce a modulare ogni espressione ed emozione nel volto di Celeste, terribilmente oppressa dal suo matrimonio e dalla sua vita in una torre d’avorio. Negli scontri con il marito possiamo vedere la paura tramutarsi in rabbia per poi scemare in una profonda tristezza, tutto reso dagli sguardi. Ruba la scena alle talentuose colleghe e potrebbe conquistare il primo Emmy della sua carriera.
Il film forse passato più in sordina nella carriera della Kidman, racchiude la sua performance più sfrenata, audace e indomabile. Esordio alla regia di Kim Farrant, che vive delle influenze del cinema di Peter Weir e David Lynch, realizzando un’imperscrutabile pellicola che esplora l’evoluzione della sessualità femminile, ma contemporaneamente espone la disfatta delle dinamiche familiari apparentemente maledetta da una tempesta di sabbia. Come in Picnic a Hanging Rock, la natura vince sulla società civilizzata, e una madre, non può far altro che invocare attraverso un urlo disperato, la restituzione della figlia scomparsa, quasi come inghiottita dal deserto. In Strangerland l’interpretazione della Kidman è un continuo crescendo che segue la repentina discesa nella pazzia di Catherine. Tormentata da sogni premonitori, la donna nasconde un passato di promiscuità, e vede il fiorire della sessualità della figlia al contrario dello sfiorire della sua. L’improvvisa sparizione crea in lei un conflitto che la porterà a un totale smarrimento. È sicuramente tra le più indimenticabili la scena che rappresenta l’apice della sua interpretazione, dove nel cuore della notte si addentra nel deserto alla disperata ricerca della figlia e cade vittima di una sorta di esperienza mistica, forse solo frutto della superstizione. Al limite dell’isteria, Nicole è pura elettricità, totalmente disinibita prova per l’ennesima volta la sua unicità, e quel coraggio di cui nessun altra attrice è in possesso.
Nicole Kidman in “Birth” |
Un taglio di capelli simile a quello di Mia Farrow nel capolavoro di Roman Polanski, Rosemary’s Baby, film a cui questo di Jonathan Glazer è stato spesse volte paragonato, è solo un tratto che contraddistingue il complicato personaggio di Anna, impersonato da Nicole Kidman. In un’interrogazione esistenzialista, metafisica, Birth racconta lo sconvolgimento della vita di una donna quando un ragazzino dichiara di essere il marito defunto, reclama il suo amore e cerca di convincerla a non risposarsi. Interpretato come un semplice thriller con fin troppa facilità dal pubblico, il film è in realtà un dramma psicologico dall’atmosfera cupa e fredda, che si concentra sul dilemma e il conflitto interiore di una donna che soffocata dalla borghesia moderna, si trova sull’orlo della depressione, alla ricerca di una ragione di vita che secondo lei risiede nel puro amore perduto del suo Sean, ma una forza divina superiore sembra volerle dare una seconda chance. Nell’interezza della pellicola la Kidman sembra trovarsi in uno stato di continua riflessione, non servono le battute per esporre i pensieri di Anna, ne è la prova la celeberrima scena del lunghissimo primo piano durante l’opera. Il Preludio di Wagner fomenta la tensione nello sguardo cristallino della Kidman, che sostiene la camera creando un’impetuosa connessione con lo spettatore. Con i suoi occhi e le micro espressioni del suo viso è come se dicesse “questo è ciò che prova Anna, questo è il suo dramma e il suo fardello, adesso anche tu puoi comprenderlo”. Se in molti hanno ad oggi rivalutato Birth, come pellicola di carattere filosofico dall’estetica unica, in pochi comprendono quanto la performance di Nicole Kidman non è solamente tra i più alti apici della sua carriera, ma tra le migliori interpretazioni femminili di questo secolo.
Menzioni d’onore
Dal suo esordio cinematografico nel 1989, con Ore 10: Calma piatta di Phillip Noyce, da ragazza australiana dal caschetto di riccioli, è divenuta spalla femminile in pellicole come Giorni di tuono e ancora dopo The Peacemaker, addossatosi il macigno di signora Cruise con il primo film, in diversi casi negli anni ’90 ha dimostrato di essere molto di più di quanto credessero i media. Nel 1995 diventa un’arrampicatrice sociale per la commedia dark di Gus Van Sant, To Die For, mentre instaura una delle più importanti amicizie della sua carriera grazie a Ritratto di Signora (1996), diretto dalla conterranea Jane Campion, Quelli di Suzanne Stone e Isabelle Archer sono due ruoli completamente opposti tra loro ma che rappresentano un rilevante punto di svolta nella carriera della Kidman, già dagli esordi capace di saper alternare toni totalmente differenti, passando dalla commedia più cruda al dramma in costume. Doveroso citare anche alcune delle sue pellicole, sfortunatamente, passate inosservate alla loro uscita, ne sono un esempio Fur (2006) di Steven Shainberg, dove interpreta la tormentata fotografa Diane Arbus in un momento immaginario della sua formazione, e Il matrimonio di mia sorella (2007), in cui veste i panni della scrittrice bipolare Margot, probabilmente una delle pellicole meno riuscite di Noah Baumbach, ma senza dubbio uno dei personaggi più incisivi della Kidman. Tra i ruoli più recenti vi è poi quello di Evie in Stoker (2013), debutto in lingua inglese di Park Chan-wook, dove l’attrice interpreta una madre alcolista, snaturata nei confronti della figlia, ed è protagonista di un originale monologo. Ed è anche il ruolo di una madre, ben più romantico, quello di Lion (2016), un piccolo ma intenso personaggio che ha portato alla Kidman la sua quarta nomination all’Oscar.