Di Pietro Lafiandra
Paul (Richard Pasco) è sdraiato nella branda di un ospedale quando, inquieto, prende a dimenarsi tra le lenzuola, vittima di un orribile incubo. Il professore, giunto da Lipsia in un piccolo villaggio della Germania rurale in seguito all’omicidio/suicidio del fratello, è convinto di aver visto Megera, la gorgone che, secondo gli abitanti del villaggio, starebbe da anni pietrificando gli uomini che incrociano il suo sguardo.
L’uomo suda, mugugna, disfa le coperte, si dimena come se stesse scappando da qualcosa o qualcuno. D’un tratto, si alza, seduto sul letto, e lancia un urlo acuto di profondo terrore. Allertata dalle grida, lo raggiunge Carla Hoffman (Barbara Shelley), la paziente del Dr. Namaroff (Peter Cushing) che fa da infermiera all’uomo:
– Non si agiti, non si agiti.– Era qui, è entrata nella stanza, l’ho vista!
– Sognava, non è entrato nessuno qui, le assicuro.
– Ma era china su di me, vedevo i serpenti della testa che pendevano… è stata qui le dico!
– Ma era un sogno, nient’altro che un sogno. Ora si tranquillizzi… e cerchi di riposare un po’.
La donna è in realtà il cavallo di Troia usato da Megera, una gorgone (nel film il mito delle gorgoni e delle Erinni viene accorpato) che infesta da tempo il villaggio, per reincarnarsi e tornare a uccidere. Fisher comunica questa reincarnazione ben prima di rivelarla esplicitamente, nel far compiere a Carla le stesse azioni con cui Paul aveva connotato la gorgone, ovvero l’entrare nella stanza e il chinarsi su di lui. La visione della donna è però rassicurante per il ragazzo che, tranquillizzato dai suoi tratti gentili, dalla sua bellezza e dalle sue carezze riesce ad addormentarsi nuovamente.
La bellezza di Carla Hoffman dovrebbe essere il contraltare dell’estrema bruttezza di Megera, evocata in diverse sequenze del film in cui la gorgone viene mostrata solo di riflesso, attraverso gli specchi fisici o quelli acquosi di una pozzanghera. Poco prima Paul stesso aveva spiegato al Dr. Namaroff il fascino orrido con cui la creatura l’aveva traumatizzato. Sdraiato nel suo letto aveva lamentato i dolori causatigli dalla visione del riflesso, bastevole perché i suoi capelli sbiancassero, ingrigissero, mimando l’atto di pietrificazione con cui Megera uccide le sue vittime.
– Ma che cosa mi è successo?– Mrs. Hoffman aveva una specie di presentimento che le fosse accaduto qualcosa. L’abbiamo trovato svenuto vicino alla vasca.
– E… e da quanto sono qui?
– Cinque giorni.
– Cinque giorni?
– Non si muova. Ricorda cosa le accadde prima di cadere?
– Come?
– Non se lo ricorda?
– Mi ricordo… mi ricordo di aver visto qualcosa riflesso nella vasca.
– E che cos’era?
– Una faccia, ed era orrenda, la cosa più orrenda che io abbia mai visto.
Seguendo la descrizione fattane dal protagonista e invogliato dalla scelta di Fisher di nasconderne il volto fino alla sequenza finale della pellicola, lo spettatore si aspetterebbe un’estetica terrificante della gorgone, vorrebbe essere strabiliato e inorridito quanto Paul. Perché, allora, Christopher Lee ha definito The Gorgon “un film dal bell’aspetto, ma che si è sgretolato perché gli effetti dei serpenti sulla testa di Megera non erano sufficientemente ben fatti in relazione al climax del film”, aggiungendo che “non è un film memorabile ma che avrebbe potuto essere magnifico” e che “l’unica cosa sbagliata in The Gorgon è la gorgone?
Analizzando il primissimo piano dedicato a Megera nelle ultime battute del film si possono notare i differenti dettagli con cui è stato perseguito il modello orrifico, un modello che, però, non ha portato ai risultati sperati, deludendo l’appeal che il film, con i suoi toni espressionisti e la sua atmosfera lugubre, riusciva a creare.
Le pupille sono dilatate, l’iride nera, assente, i bulbi sono opachi e arrossati, le ciglia lunghe, a mimare la forma dei serpenti che sbucano dai capelli. Il makeup azzurro-verde, serpentesco, sembra voler riprodurre delle squame, il colore della pelle dei rettili, ma è usato con eccessiva parsimonia. I capelli sono neri e ispidi. Tra di questi svettano dei serpenti meccanici. In questo zoomorfema, nel simbolo animale identificativo della gorgone, si nota il fallimento nella creazione del mostro. Differentemente che, ad esempio, nella Medusa di Uma Thurman, i serpenti non sono l’elemento costituivo della chioma, ma una semplice appendice. Se, in Percy Jackson, grazie alla CGI — per altro, approssimativa — i serpenti della gorgone prendono vita, sibilano, si contorcono, attaccano il protagonista, e costituiscono i capelli, qui sono pochi, statici, palesemente macchinici.
A questo proposito, Barbara Shelley aveva proposto al produttore Anthony Nelson Keys di usare una speciale parrucca con dei veri serpenti da giardino per dare alla gorgone un effetto più realistico. La sua idea fu rifiutata per problemi di budget e di tempo, ma quando Keys vide gli orribili effetti speciali finali disse alla Shelley che avrebbe dovuto tenere in considerazione la sua idea.
Lo sguardo che uccide è il perfetto esempio di come il fallimento del modello orrifico (quel modello attraverso cui si rende il design delle creature fantastiche più o meno spaventevole) nella costruzione di un mostro possa ripercuotersi sulla ricezione globale del film. Non solo Christopher Lee, anche la critica (Paolo Mereghetti, per esempio, nel suo celeberrimo dizionario dei film definisce Lo sguardo che uccide “il film meno riuscito di Fisher per la Hammer” e il trucco della testa mozzata della gorgone “da dimenticare”) ha quasi unanimemente considerato l’estetica della gorgone il difetto di un prodotto che, altrimenti, aveva dimostrato di saper utilizzare l’uomo-animale come strumento non unicamente utile a incutere timore nello spettatore, ma anche per scandagliare — nei limiti del film di genere — il terrore del diverso, incarnato dall’accoglienza riservata da parte dei paesani agli stranieri che, mano a mano si presentano per indagare sulla lunga serie di omicidi che tormenta il paese, nonché dal rapporto tormentato che tutti i personaggi principali intrattengono con le figure femminili.
L’ossessione per le donne si inserisce nella generale paura dello straniero manifestata continuamente da parte degli abitanti del paesino e di cui Megera diventa metafora. L’avvento dei vari esponenti della famiglia Heitz (Bruno Heist che, ogni estate, affitta un mulino nella foresta per poter lavorare indisturbato, Jules Heitz, il padre che vuole indagare sui delitti e che diventa anch’egli vittima e Paul, il figlio minore chiamato in paese da Jules), una famiglia altolocata, composta da artisti e docenti universitari, è malvista dalle stesse forze dell’ordine che additano i comportamenti libertini di Bruno e si disinteressano della protezione di Jules quando questi si vede minacciato e schiaffeggiato dal manipolo di abitanti: questi, fiaccole in mano, penetrano nel suo appartamento e lo intimano ad andarsene dal paesino. Quando la polizia giunge sul luogo, il dialogo tra il professore e l’ispettore Kanof è molto acceso. L’ispettore ribadisce come gli stranieri non siano ben accetti in paese, rifiutandosi di compiere il proprio dovere.
– Niente di grave spero.– No. Se fatti simili si ripeteranno, ispettore, io farò lei il responsabile.
– Mi dispiace ma io dispongo di pochi uomini e hanno molte altre cose da fare oltre che difendere gli ospiti poco graditi. Lei ormai ha finito qui, se ne vada.
– Non ho finito per niente.
– E va bene, io l’ho avvisato, altro non posso fare. Se dovesse cambiare parere, professore, la farò scortare fino alla stazione.
Per il professor Heitz, nel paesino è in corso quella che lui stesso definisce come “la congiura del silenzio”: i paesani, come d’altronde le istituzioni tutte (dal dottore alla polizia), non vorrebbero ammettere l’esistenza della presenza di un killer (reale o sovrannaturale che sia) per paura di dover affrontare e sradicare il problema. In realtà tutti gli abitanti temono che accennare agli omicidi possa attirare su se stessi le furie di Megera dal momento che la leggenda narra di come questa si sia rifugiata nel maniero diroccato che svetta nei meandri del paese.
È Carla a rivelare questo sentimento di terrore a Paul: la ragazza è controllata giorno e notte dal Dr. Namaroff, il quale sorveglia le sue amnesie e che la ammonisce più volte: “ci sono dei momenti in cui non puoi restare sola”. Carla è spaventata dall’atteggiamento possessivo del dottore e vorrebbe scappare dal borgo, impaurita dai ripetuti delitti. Paul la invita ad andarsene e si offre di aiutarla a fuggire: crede tanto nel loro amore che, di soppiatto, prenota un treno notturno che la conduca in città. Paul, come straniero, è un agente disturbante della tranquillità del paesino e il suo tentativo di strappare Carla dalle grinfie della Germania rurale è un motivo in più fornito al paese, al dottore nello specifico, per diffidare del diverso.
Le ragioni sociali si intrecciano a quelle amorose per tutto il film e il terrore per lo straniero è solo una declinazione del terrore di una società chiusa e fallocentrica, in cui tutti i personaggi di rilievo sono uomini, verso l’Altro, il diverso, in ogni sua forma, cittadino, mostro o donna.
Già nella sequenza di apertura, viene presentato il difficile rapporto tra un artista, il fratello di Paul, e la fidanzata che ama, vorrebbe sposare, ma che non ha i soldi per mantenere. Il pittore è seduto davanti a un supporto di legno e sta ritraendo l’amata con la matita, nuda davanti a lui. Quando questa lo informa della sua gravidanza, l’uomo esce di casa per affrontare il padre di lei e informarlo che adempirà ai suoi doveri. La donna lo insegue, impaurita dalla possibile reazione del padre, fin dentro la foresta, dove, dopo aver notato la luna piena, viene pietrificata da Megera.
Non solo nella sequenza iniziale, il rapporto con le donne perseguita gli altri due protagonisti maschi della storia, Paul e il Dr. Namaroff, che si contendono l’amore di Carla, il primo dichiarandosi (e venendo ricambiato), il secondo con comportamenti dispotici nascosti sotto le necessità cliniche della donna. Carla soffre infatti di amnesie e il Dr. Namaroff sa, o sospetta, che possa essere lei Megera, nonostante si continui a rifiutare di ammettere l’esistenza della gorgone. I dialoghi tra i due sembrano però riconducibili ai litigi di coppia, al clichè dell’uomo geloso che vorrebbe segregare l’amata tra le mura di casa.
– Carla, ieri mi hai detto che fuori tu non hai visto nessuno, però non è vero.– Ma devo rendere conto di tutto quello che faccio?
– Eri con Paul Heitz, confessalo!
– Lo chieda a Ratoff.
– Lo sto chiedendo a te.
– Sono stanca di essere trattata come una criminale. Perché Ratoff mi segue sempre, dovunque io vada? Perché lei mi fa spiare?
– Lo faccio per il tuo bene.
Carla viene pedinata, viene fatta seguire ogni volta che esce di casa per il sospetto che possa fare del male a qualcuno, ma, anche se è l’unica a essere spiata direttamente, non è la sola donna a essere ricercata. Attraverso l’archivio degli “stranieri che manifestano l’intenzione di prendere la cittadinanza” il Prof. Karl Meister (Christopher Lee), amico di Paul, ispeziona lo schedario di tutte le donne straniere giunte in città e scopre che Carla è giunta in paese più o meno da quando sono iniziati i delitti, cominciando così ad avere un quadro più chiaro dell’intera situazione.
Nella sequenza finale, Paul aspetta Carla nel castello dove “abita” Megera e lotta con il dottor. Namaroff in quella che ha l’aspetto di una faida per la conquista dell’amata. Paul urla il nome della donna mentre, dietro di lui, Namaroff lo attende con una spada in mano. I due danno il via a una lotta estremamente violenta che sembra potersi chiudere solo con la morte di uno o di entrambi, mentre Megera, comparsa dall’alto delle scale, li guarda come a volerli controllare e sfidare.
Namaroff stende Paul e si avvicina alla gorgone con la spada, cercando di decapitarla ma non riesce a resistere al suo magnetismo e la guarda. Anche Paul sembra destinato alla stessa sorte ma, dopo aver incrociato il suo sguardo, alle spalle di Megera interviene il Prof. Karl Meister che, con un colpo netto, ne recide la testa sotto lo sguardo inorridito di Paul che vede il suo volto tramutarsi velocemente in quello di Carla.